5 años atrás nos veían así

El 25 de Noviembre de 2.009 tuve el placer de leer el que para mí es el más representativo artículo del Barça de esos años. O el que más me emocionó. El hecho de que apareciera en el diario italiano “La Reppublica” y que estuviera firmado por un periodista amante de la música de Sergio Endrigo ayudó. Sí, esa era la imagen que tenía el mundo del Futbol Club Barcelona de esos años.

Bolognini, uno de los 200 socios que tiene el Futbol Club Barcelona en Italia (espero que aún lo sea tras la aventura sin fin del censo) vino a ver, en calidad de socio y no de periodista el Barça-Inter resuelto con un 2 a 0. Y no nos habla del encuentro. Nos habla del porque se siente orgulloso de este Club. Del “Més que un Club”, de la resistencia al franquismo, de saber que otro futbol es posible, de un balón hecho poesía, del gusto por la estética, de un entrenador que habla en la sala de prensa, del sentido colectivo, de la ausencia de violencia, de Unicef… Y todo eso escrito en italiano. Era la imagen que el Club proyectaba al exterior. La envidia de cualquier equipo y seguidor con cuatro dedos de frente.

A día de hoy no tengo claro que Bolognini sea aún socio del Barça. Nada, absolutamente nada de lo que menciona podría escribirlo a día de hoy. Han transcurrido tan solo 5 años desde entonces. No hay ni coincidencias.

Da Milano al Camp Nou
per tifare Guardiola

Il racconto di un tifoso speciale: uno dei 200 italiani soci del club catalano.
di LUIGI BOLOGNINI

Da Milano al Camp Nou per tifare Guardiola

BARCELLONA – «Avui som 93.524» strombazza il maxischermo a inizio secondo tempo, quando la furia blu e granata si è un pochino sopita, l’Inter barcollante respira e lo spettatore può sollevare gli occhi dal campo senza timore di perdere qualcuna delle delizie sotto forma di riccioli, svolazzi, palleggi, schemi, del primo tempo. Sembra friulano, ma è catalano: «Oggi siamo 93.524».
Diciamola meglio, al Camp Nou siamo 93.523 più 1. Me. Al debutto dal vivo come socio del Fc Barcelona. Uno dei circa 200 soci italiani sui 170mila sparsi nel mondo. Anche se per la verità 140mila sono concentrati in Catalogna, cosa che fa del club «mes que un club», più di un club, dice il motto sociale (questione di resistenza alla dittatura di Franco, all’identità spagnola, al Real Madrid filogovernativo), e rende le partite in casa sempre molto affollate. Figuriamoci questa, che è quella della vita o della morte: perdere vuol dire eliminazione certa dall’Europa, pareggiarla quasi. Bisogna vincere, perdipiù con mezza squadra rapita da influenza suina e infortuni vari, per questo i ragazzi hanno bisogno anche di me, per questo – prevedendo tutto, neppure fossi Otelma – ho prenotato il mio posto due mesi fa. Noi soci possiamo: in cambio di 150 euro l’anno, oltre a una tessera stile Bancomat con foto, banda magnetica e codice Pin, a una sacchettata di gadget tipo tshirt, spilline e dvd rievocativo della stagione, al voto per rinnovare le cariche sociali, ho anche diritto di prelazione con sconti minimi del 20 per cento su tutte le partite in casa. Quei 150 euro che – sia chiaro – ho orgogliosamente versato via Internet con Visa il 26 maggio, vigilia della finale di Champions League a Roma. Questo tanto per far capire che non salgo sul carro del vincitore, ma anzi, mi metto tra le stanghe a tirarlo.

È stato principalmente un gesto di rifiuto nei confronti del calcio italiano. Meglio scappare, anche se finora solo virtualmente con Sky o Youtube, meglio scoprire che un altro calcio è possibile: un calcio fatto di poesia, gusto per l’estetica (certi schemi sembrano copiati dalle linee arzigogolate di Gaudì), un allenatore che parla sì in conferenza stampa ma non rilascia interviste, senso del collettivo cui si è dovuto inchinare anche l’individualista per eccellenza Ibrahimovic; rispetto dei giovani, ovvero del vivaio (ieri sette in campo, più l’allenatore Guardiola, venivano da lì); assenza di violenze (poliziotti intorno al Camp Nou ieri sera: zero, solo i vigili urbani a regolare il traffico). Mai polemiche (il massimo di insulti a Mourinho è stato «interprete», ricordando quando qui era il vice di Robson cioè ne traduceva i discorsi in spagnolo). Non esiste il razzismo:niente cori contro, magari su colore della pelle, origini razziali e bagatelle simili, solo canti di incitamento. E lo sponsor al Barcellona non paga, ma viene pagato: è l’Unicef.

Ecco perché ieri sera dovevo esserci dal vivo, poteva essere la fine o una botta quasi letale a tutto questo. Così, vestito con blue jeans e camicia granata, ho preso un aeroplanino da Milano carico carico di interisti, e dopo aver girato un po’ la città mi sono fiondato in metrò (incredibile, per chi a Milano ha San Siro a chilometri da una fermata) al Camp Nou, una città camuffata da stadio. Il museo più visto di tutta Catalogna, con coppe, foto, video, cimeli, un negozio con qualunque cosa purché tinto di blaugrana una serie di bar dove i tifosi si fanno tranquillamente flebo di sangria come fosse un happy hour, ma più civile, un afflusso di gente di ogni età e sesso, muri senza una scritta, strade pulite, un’attesa che si fa serrata ma serena: «Noi la partita decisiva non la sbagliamo mai, minimo due gol glieli facciamo», dice un ragazzino seduto accanto a me. Tutti attorno a me, i miei colleghi di tifo, ben più rodati, cantano forsennati l’inno della Catalogna e quello della squadra: «tenim un nom, el sap tothom, Barça, Barça, Barça», «abbiamo un nome che conoscono tutti, Barça, Barça, Barça». Imparerò, nelle prossime trasferte in casa.